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a storia di Scilla e Cariddi

Scilla, “Colei che dilania”, che strappava i marinai dalle loro navi ogni volta che passavano vicino la sua tana nello Stretto di Messina, non era sempre stata un mostro. Aveva un passato felice, ma come in molte tragedie dell’antichità, l’amore è capace di generare mostri, per scelta propria o per intervento di esseri gelosi. Prima del cambiamento Scilla era una ninfa e figlia, secondo una delle tradizioni mitologiche, della dea Crateiso, o per un’altra versione, generata da Forci (o Forco, divinità marina della mitologia greca, figlio di Ponto e Gaia) e da Ecate (dea degli incantesimi e degli spettri, rappresentata dal numero tre). La graziosa ninfa amava le spiagge di Zancle, l’antica Messina e in quei luoghi amava passeggiare spesso. Purtroppo, proprio questi suoi frequenti passaggi in riva al mare, nella zona dello Stretto, causarono la sua rovina. Due le ipotesi cantate dalla tradizione greca.

In una, il dio marino Glauco, per metà pesce, innamorato della ninfa e incapace di convincerla con le proprie attenzioni, chiede aiuto alla maga Circe. Questa però, a sua volta innamorata di Glauco e terzo lato dell’eterno triangolo dell’amore, non vede di buon occhio la richiesta del suo amato. Circe architetta quindi una contromossa per danneggiare l’oggetto del desiderio di colui che ritiene il “suo” Glauco. Invece di una pozione d’amore, ne fa un’altra che versa nello specchio d’acqua dove la ninfa si getta abitualmente. Non appena Scilla si immerge, vede trasformarsi il suo corpo: diventa un essere con dodici zampe e sei teste di orribili cani (nell’immagine: Giovanni Angelo Montorsoli – Scilla, 1557, Messina, Museo Nazionale). Per la vergogna la ninfa, ormai mostro, si nasconde in una grotta dello Stretto di Messina.

Nell’atra versione, Scilla fa innamorare invece Poseidone. Ma il dio era già sposato con Anfitrite che aveva messo alla luce Tritone. Sarà la moglie del dio del mare a mettere in atto quell’azione che nella precedente versione della storia portò alla trasformazione di Scilla.

Per Cariddi, “Colei che risucchia”, è tutto più semplice. Figlia di Poseidone e di Gea, la Madre Terra, ha sempre un grande appetito. È l’essere più vorace che sia mai esistito. Cariddi è tanto affamata che quando Ercole passa dallo Stretto di Messina con la mandria di Gerione, ruba alcuni buoi per mangiarseli.

Non lo avesse mai fatto.

Zeus le scaglia contro un fulmine trasformandola in mostro. Lei rimarrà sullo Stretto di Messina nella riva opposta a Scilla. Tracanna enormi quantità d’acqua che poi risputa con violenza nel mare causando quei gorghi che inghiottono le navi di passaggio (nell’immagine: Giovanni Angelo Montorsoli – Cariddi, 1557, Messina, Museo Nazionale; prima del terremoto del 1908 era in coppia con la statua di Scilla nella fontana del Nettuno).

Dall’Odissea di Omero, Libro XII, 101-104: “L’altro scoglio, più basso tu lo vedrai, Odisseo, vicini uno all’altro, dall’uno potresti colpir l’altro di freccia. Su questo c’è un fico grande, ricco di foglie; e sotto Cariddi gloriosa l’acqua livida assorbe. Tre volte al giorno la vomita e tre la riassorbe paurosamente. Ah, che tu non sia là quando riassorbe”.

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